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RACCONTI D’ARTE
#04
QUALCUNO SU UN TETTO

Daniela Zangrando

Mensile news, settembre 2023, pp. 54-55

Credo che almeno una volta, camminando lungo qualche sentiero di montagna, vi sarete imbattuti in un camoscio. Probabilmente, prima di vederlo, avrete sentito dei rumori provenire dalla sommità di un prato erboso, o da una cengia. Non è qualcosa di allarmante, ma è sufficiente, almeno quando accade a me, per farmi rallentare il passo e tentare di alleggerirlo per ascoltare ancora meglio. 
Sgravando il più possibile il peso sul terreno, sollevo allora la testa, e lo intercetto. È proprio un camoscio. Ha un portamento che non somiglia a quello di nessun altro. Le nostre occhiate non si incrociano. È raro che ci si riesca a guardare davvero in fondo agli occhi da quella distanza, sopportando tra l’altro il rischio che potrebbe comportare – mi sentirei messa a nudo di certo! – ma quel momento preciso in cui il suo essere in alto incombe su di me, ci unisce. La compostezza e il suo rivolgersi al mio essere in basso, mi tocca tanto da farmi immaginare e fantasticare riguardo la sua esistenza. 

«Chi sei tu? Da dove vieni? Ci sei per indicarmi il canale giusto da imboccare? Mi stai dicendo che oggi forse non è il caso proseguire? Mi ricordi vagamente qualcuno. Cosa vedi da lì, che io non vedo? Capisco benissimo che non ti interessa rispondere alle mie domande. Non dici niente perché non c’è niente da dire. Niente.»
E il camoscio rimane. Con schiettezza muta, sta immobile come un punto di riferimento. Orienta. La sua non è sfrontatezza, è soltanto misteriosa dignità. A me tocca decidere se andare avanti o meno. Se quell’esserci sia monito, incoraggiamento, o pura indifferenza.

 

Nel 2006 Matteo Rubbi, artista italiano nato a Seriate nel 1980, realizza la mostra “Fragmented show” negli spazi di Viafarini a Milano. Tra i vari lavori, un’azione. Una persona staziona su un tetto vicino allo spazio espositivo durante l’inaugurazione della mostra. 
Immaginate un grappolo di persone accorse per vedere “Fragmented show”. Un chiacchiericcio tutto orizzontale che entra ed esce dalla sede, intrecciandosi. Arriva altra gente e il vociferare si incrementa, perde di nitidezza. Le bocche sorridono, le mani si muovono, uno si presenta, un altro si allontana. La scena si ripete. Fino alla sensazione quasi di un sottile schiacciamento, di una pressione. Qualcuno comincia a sentirsi osservato. Allora alza il mento, e scorge una sagoma. C’è qualcosa lassù in alto. Una sagoma umana. Ma non fa niente! Non acchiappa le zanzare, non cammina. Non si muove. Non è uomo né donna, non è né magra né grassa, né alta né bassa. È solamente una persona. Anzi, una presenza. A uno a uno tutti i visitatori si trovano con la testa in su. Inizialmente prevale la curiosità. Chissà se fa parte della mostra, chissà se le gambe le tremano un po’ quando guarda giù, chissà se da quella posizione l’insieme confuso e allegro di esseri umani che si incontrano le pare strano. 

Anche distogliendo lo sguardo, si continua a percepire che quel qualcuno, lì, c’è. E entrando in Viafarini la sensazione non viene meno. C’è un sottile disagio nella consapevolezza del suo essere presente. E la curiosità diventa pian piano bisogno di ritirarsi dallo sguardo, di sottrarsi, di nascondersi alla vista. Si ha l’impressione di essere seguiti. Il non riuscire a guardare davvero negli occhi quel qualcuno – anche la sagoma, come il camoscio, è troppo lontana – incrementa l’idea di stare su una soglia tra la sua attenzione e una sorta di strano giudizio. Tra il sentirsi accompagnati e sicuri, sotto l’ala protettrice di quell’essere, e il timore che sappia così tanto sul nostro conto da farci vergognare. Tra il pensiero che sia il nostro sguardo a metterlo sotto un riflettore, e quello che sia invece il suo a disegnare i bordi del nostro essere, del nostro corpo, fino a non sapere più se in luce sia il qualcuno o proprio noi.
Mi torna in mente questo lavoro di Matteo Rubbi tutte le volte che vado in montagna. E mi scopro a cercare il qualcuno nei giorni a seguire, in paese, buttando l’occhio sopra ai tetti delle case, tra i camini, di fianco a un abbaino, a un’antenna, o lungo una grondaia. In montagna chiamo quella presenza camoscio, o muflone, o picchio muratore. Qualche giorno fa l’ho riconosciuta in un falchetto. Nelle albe di primavera, la trovo nei merli che cantano i miei risvegli. 
Prima di raccontarvi di “Qualcuno su un tetto”, ho chiesto a Rubbi: «È un lavoro che senti ancora? Che ti tiene?» E lui, velocissimo: «Sì, mi stupisce ancora la sua esistenza.» 

Pensateci un attimo la prossima volta che andate in montagna. A questo stupore. Uno stupore malinconico forse – in parte il mio lo è – e sicuramente profondissimo. 
«Chi sei tu? Da dove vieni? Ci sei per indicarmi il canale giusto da imboccare? Mi stai dicendo che oggi forse non è il caso proseguire? Mi ricordi vagamente qualcuno. Cosa vedi da lì, che io non vedo? Capisco benissimo che non ti interessa rispondere alle mie domande. Non dici niente perché non c’è niente da dire. Niente.»

 

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