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Vertigine

Daniela Zangrando intervista Giovanni Giaretta e Matteo Rubbi

Museo Burel, novembre 2022

Daniela Zangrando: Cosa significa andare a ridurre e comprimere un paesaggio in uno spazio?

 

Matteo Rubbi: Significa fare quello che facciamo quando entriamo in uno spazio che non conosciamo, dove incontreremo persone nuove. Ci sentiamo esposti e un po' in ansia. Dobbiamo compattarci, ridurci, per poter passare dalla porta, per poter contenere il fiume in corsa che siamo e sembrare qualcosa di più decifrabile, di meno folle. Per dire alcune cose di sé e altre no. Mettere barriere e regole anche, ma provando ad esserci davvero, almeno un pezzo di noi.

 

Giovanni Giaretta: Il filosofo iraniano Reza Negarestani, nel suo denso libro “Cyclonopedia: Complicity con Materiali Anonimi”, scrive una breve riflessione riguardo i movimenti tellurici terrestri: «Non esiste opera di finzione narrativa più originale – in termini di schizofrenia, collettività di autori, movimenti di trame diverse, composizione, ricchezza di inautenticità e linguaggio – della terra stessa.»

Forse allora non si tratta di una riduzione, termine che mi fa pensare in modo quasi scientifico ad un cambio di scala, ma di una trasformazione.

Un paesaggio, o la materia stessa che lo compone, diventano protagonisti. Ed è questione di immaginare, di usare un paesaggio come semplice base per proiettarci sopra tempi, narrazioni e storie diverse.

Penso anche che l’impressione, la traccia – anche solo mnemonica – lasciata da un paesaggio, riviva come uno spettro nello spazio, aleggiando senza essere più quello che era prima. Sono fantasmi, che tornano in forme diverse.

 

 

 

D.Z.: Si può forzare in uno spazio anche un cielo?

 

M.R.: Allo stesso modo un pezzo di cielo (ma solo un pezzo) entra in uno spazio e si riduce, entra in scala 1:100.000 e diventa di cemento – d'aria che era, diventa duro, denso, un grattacielo d'aria solida che raggiunge lo spazio, quello delle astronavi, quello dal quale la terra è una grande biglia azzurra e pacifica. Entra e si concede agli abitatori umani e al loro sguardo che ha bisogno di sezionare, contare, ordinare, accarezzare.

 

 

 

D.Z.: «All’interno del monte erano scavati lunghi corridoi e grandi sale, che racchiudevano favolosi tesori. L’accesso a quell’incantevole regno non era difeso da mura o palizzate: soltanto un sottile filo di seta ne tracciava tutt’intorno il confine.» Sono due frasi tratte dal racconto “La leggenda delle rose” di Karl Felix Wolff, contenuto nella raccolta “I monti pallidi. Storie e leggende delle Dolomiti”. Da quel punto in avanti sarà tutto un susseguirsi di tradimenti, lotte intestine, amori, e tramonti.

Le frasi accennano ad una montagna interna. Penso ai frottages di Giovanni. Al suo immaginario ad imbuto – mi viene quasi da dire a matrioska – che ci spinge nelle viscere di un luogo.

 

GG: Quando ci hai mostrato il disegno della montagna di Dino Buzzati abbiamo iniziato ad immaginare l’interno, non tanto un’altezza ma una profondità, come se fosse possibile portare in superficie ciò che è nascosto all’interno, che poi è già un movimento geologico.

I frottages che ho realizzato sono stati fatti su piccole pietre, pareti rocciose e spiagge… Li ho poi ingranditi e stampati. Sono delle textures che appaiono nuovamente ed ulteriormente trasformate nelle immagini in movimento che sono in mostra, e anche nel lightbox.

C'è insomma una vera e propria schizofrenia di visioni e riapparizioni, una costante sedimentazione e quindi proprio un effetto matrioska.

 

 

 

D.Z.: C’è un tempo proprio della montagna? Quando guardo alla montagna, mi sembra sempre che trasgredisca il tempo stesso, che si prenda l’agio di evadere da quello della situazione reale, contingente. Una possibilità di parentesi, una bolla, una bellissima libertà.

 

M.R.: Sulla montagna abitano gli dèi, i demoni, è il luogo del sacro, del tempo sottosopra, delle ascensioni al cielo, della discesa della legge, delle arche, dei passaggi. Una montagna che ci guarda, ci interroga su noi stessi, sulla nostra sostanza e consistenza, sul nostro modo di raccontarci, sul nostro tempo, mettendoci in discussione nello stesso istante sul senso e sulla sua assenza, un'assenza che produce crepacci e voragini, e che però ci fa vedere così lontano, così in profondità.

 

GG: Sì, ed è un vedere in profondità che mi offre quasi l’impossibile possibilità di uscire dal mio punto di vista umano e di sentire un forte capogiro nel provare a farlo. Un tempo proprio della montagna che può esprimersi in una lingua che devi decifrare. Per citare una poesia di Ursula K. Le Guin «Ci vuole un po’ per imparare a parlare il lungo linguaggio della roccia». Forse è lo stesso con le montagne.

 

 

 

D.Z.: Per chiudere, non posso fare a meno di chiedervi… cos’è per voi vertigine?

 

G.G: Immaginare qualcosa che è momentaneamente celato allo sguardo, qualcosa che deve essere ancora scoperto. La vertigine è come un vetro appannato che ti fa intuire cosa c'è dietro senza dartene l'immagine totale.

 

M.R.: Penso alla Terra e alla sua superficie sottile, solo lì è possibile nascere e morire, e costruire le nostre città, e raccontarci le nostre storie, solo lì è possibile essere crudeli e anche buoni, su quella pellicola sottile fatta di vette ghiacciate e abissi bui. Se penso alla terra come ad una bolla di sapone che basta niente e puff, spariscono montagne, tempeste, oceani, civiltà, generazioni, glorie e miserie, tutto, e resta solo pulviscolo nello spazio infinito, quella per me è vertigine, il momento in cui la bolla fa puff, con noi sopra.

Potrei dirvi anche che vertigine è anche quando penso ad un palloncino che lascio andare e precipita, verso l'alto.

 

G.G: Sì! Mi fai tornare in mente Antonio Moresco in “Lettere a Nessuno”! Precipitare verso l’alto, all’interno di una montagna.

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